Visto che siamo ancora in clima di Campionati Europei non si può lasciar passare sotto silenzio l’odierna sentenza del Consiglio di Stato che, dopo un’accurata disamina, accoglie il ricorso della Federazione Italiana Giuoco Calcio ( FIGC ), dichiarando il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore di quello ordinario.
La vicenda da cui scaturisce la sentenza deriva da una richiesta di offerta della FIGC, che concludeva la procedura comunicando all’impresa che l’offerta dalla stessa formulata non aveva avuto successo.
L’impresa impugnava tale comunicazione e tutti gli atti della procedura innanzi al Tribunale amministrativo del Lazio, deducendo un unico articolato motivo di gravame nel quale lamentava la violazione degli artt. 1 e 3 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, dell’art. 97 Cost,, dei principi e delle norme in materia di evidenza pubblica, dei principi di imparzialità, buon andamento e correttezza dell’azione amministrativa, nonché eccesso di potere sotto i profili di difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, illogicità ed irragionevolezza, contraddittorietà, travisamento e sviamento, avendo la FIGC, nell’espletare l’iter concorsuale, ritenuto di non essere assoggettata “al rispetto dei vincoli in materia di gare pubbliche di cui al D.Lgs. n. 50/2016”.
Il Tar Lazio, con sentenza 13 aprile 2018, n. 1401, ribadiva il principio già espresso nella decisione n. 1400 del 2018, qualificando la FIGC come organismo di diritto pubblico.
Consiglio di Stato, Sez. V, 15/ 07/ 2021, n. 5348 accoglie l’appello della FIGC stabilendo, dopo una accurata disamina :
Al riguardo, la richiamata decisione del 3 febbraio 2021 della Corte di giustizia dell’Unione europea è nel senso che “i criteri alternativi figuranti all’articolo 2, paragrafo 1, punto 4, lettera c), della direttiva 2014/24, quali ricordati al punto 34 della presente sentenza, rispecchiano tutti la stretta dipendenza di un organismo nei confronti dello Stato, delle autorità regionali o locali o di altri organismi di diritto pubblico, e che, per quanto riguarda più precisamente il criterio relativo alla vigilanza sulla gestione, una vigilanza siffatta si basa sulla constatazione di un controllo attivo sulla gestione dell’organismo in questione idoneo a creare una dipendenza di quest’ultimo nei confronti dei poteri pubblici, equivalente a quella che esiste allorché è soddisfatto uno degli altri due criteri alternativi, ciò che può consentire ai poteri pubblici di influire sulle decisioni del suddetto organismo in materia di appalti pubblici (v., in tal senso, sentenza del 27 febbraio 2003, Adolf Truley, C-373/00, EU:C:2003:110, punti 68, 69 e 73 nonché la giurisprudenza ivi citata)”.
Sulla base di tali presupposti, se è vero che, in linea di principio, un controllo a posteriori non soddisfa il secondo dei criteri alternativi previsti dall’art. 2, par. 1, punto 4, lettera c), della direttiva 2014/24/UE – il quale deve essere interpretato “nel senso che la gestione di una federazione sportiva nazionale deve considerarsi posta sotto la vigilanza di un’autorità pubblica, tenendo conto, da un lato, dei poteri di cui tale autorità è investita nei confronti di una federazione siffatta e, dall’altro, del fatto che gli organi fondamentali di detta autorità sono composti in via maggioritaria da rappresentanti dell’insieme delle federazioni sportive nazionali” – in quanto non consente ai poteri pubblici di influire sulle decisioni dell’organismo de quo in tale settore (cfr. Corte giust. UE 12 settembre 2013, IVD, C-526/11, EU:C:2013:543, p.to 29 e giurisprudenza ivi citata), va però verificato, caso per caso, se “nei fatti, i diversi poteri spettanti al CONI nei confronti della FIGC hanno l’effetto di creare una dipendenza di tale federazione rispetto al CONI, tale per cui quest’ultimo possa influire sulle decisioni di detta federazione in materia di appalti pubblici.
A questo proposito, lo spirito di competizione sportiva, la cui organizzazione e concreta gestione sono di spettanza delle federazioni sportive nazionali, come si è detto al punto 55 della presente sentenza, impone di non considerare tali diversi poteri del CONI in un’accezione troppo tecnica, ma di dare agli stessi un’interpretazione più sostanziale che formale”.
Ritiene il Collegio, ad un complessivo esame delle risultanze di causa, che i poteri di direzione e controllo del CONI nei confronti della FIGC non siano tali da imporre a quest’ultima – per la quale, va ricordato, non opera (a differenza della maggior parte delle Federazioni sportive nazionali) il decisivo principio del finanziamento pubblico maggioritario – regole di gestione dettagliate e pervasive.
Non è infatti dato riscontrare – per mutuare le parole della Corte di giustizia – che il riconoscimento della FIGC ai fini sportivi consenta, di per sé solo, al CONI di esercitare (sia pure successivamente) un controllo attivo sulla gestione di tale Federazione, al punto di consentirgli di influire sulle decisioni di quest’ultima in materia di appalti pubblici. Né un potere di tal genere è implicito nella possibilità – attribuita sempre al CONI dall’art. 5, comma 2, lett. a) e dall’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 242 del 1999, oltre che dagli artt. 20, comma 4 e 23, commi 1-bis e 1-ter del relativo Statuto – di adottare nei confronti delle Federazioni sportive italiane atti di indirizzo, deliberazioni, orientamenti e istruzioni concernenti l’esercizio dell’attività sportiva disciplinata dalle stesse.
D’altro canto, le stesse difese del CONI in giudizio danno atto di come le disposizioni appena richiamate siano solamente finalizzate ad imporre alle Federazioni sportive nazionali regole generali ed astratte, relative più in generale all’organizzazione sportiva nella sua dimensione pubblica, ma non anche a consentire un intervento diretto ed attivo nella loro attività di gestione, così da poter influire sulle decisioni in materia di appalti pubblici.
In ordine poi al potere del CONI di approvare – limitatamente ai fini sportivi – gli statuti delle Federazioni sportive nazionali di cui agli artt. 7, comma 5 lett. 1) e 22, comma 5, del proprio Statuto, va rilevato che la sottostante valutazione è in realtà circoscritta al riscontro di conformità degli statuti alla legge, allo Statuto del CONI ed ai principi fondamentali stabiliti dal CONI stesso.
In questi termini, non è dato quindi individuare l’imposizione alla FIGC di vincoli idonei a comprimerne l’autonomia di gestione interna.
Neppure è decisiva, in favore della qualificazione come organismo di diritto pubblico della FIGC, l’attribuzione al CONI del potere di approvare i bilanci consuntivi e quelli di previsione annuali delle Federazioni sportive nazionali, ex artt. 15, comma 3, d.lgs. n. 242 del 1999 e 7, comma 5, lettera g2) e 23, comma 2, del relativo Statuto, non essendo stato fornito dal CONI alcun riscontro da cui poter desumere che, obiettivamente, si sia in presenza di un intervento più pervasivo rispetto alla mera verifica contabile dei bilanci consuntivi e dell’equilibrio del bilancio di previsione, sino a comportare un vero e proprio controllo attivo sulla gestione di detta Federazione.
Al riguardo, è la stessa difesa del CONI a riconoscere che “il CONI non ha, in materia, il potere di apporre un proprio veto sull’approvazione del bilancio, il quale, infatti, in caso di mancata approvazione da parte della Giunta, può (rectius: deve) essere approvato dall’Assemblea federale”.
Trattasi dunque di una forma di controllo solamente indiretto nei confronti delle attività economiche svolte dalle Federazioni, per di più limitato al rispetto dei vincoli di destinazione (in sé piuttosto generici) apposti alla contribuzione pubblica – contribuzione che nel caso della FIGC è minoritaria ai fini della copertura delle spese da questa sostenute, in quanto pari ad appena il 21% circa delle entrate della Federazione – ossia la promozione dello sport giovanile, la preparazione olimpica e lo svolgimento di attività di alto livello.
Analogamente dicasi per il potere – attribuito al CONI dall’art. 5, comma 2, lettera e), del d.lgs. n. 242 del 1999, nonché dall’art. 6, comma 4, lettere e) ed el), dall’art. 7, comma 5, lettera e) e dall’art. 23, comma 3, del relativo Statuto – di controllare l’esercizio delle attività a valenza pubblicistica affidate alle Federazioni sportive nazionali nonché, più in generale, il buon funzionamento delle stesse, circoscritto ai settori del regolare svolgimento delle competizioni, della preparazione olimpica, dell’attività sportiva di alto livello e dell’utilizzazione degli aiuti finanziari.
Tali conclusioni non vengono neppure contraddette dal combinato disposto degli artt. 7 e 9 della Deliberazione CONI n. 1271 del 2004, per cui il Comitato “può richiedere documenti e disporre ispezioni per verifiche nella gestione amministrativo contabile delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate riferita al contributo erogato. La Giunta Nazionale, qualora attraverso gli atti in suo possesso o gli accertamenti svolti, riscontri irregolarità relative all’utilizzazione dei finanziamenti per attività o spese non attinenti alle finalità delle Federazioni sportive nazionali […] adotta i provvedimenti necessari e può proporre al Consiglio Nazionale l’irrogazione delle sanzioni di cui all’articolo 9”.
Sebbene a detto riscontro possa far seguito, a seconda della gravità dell’infrazione riscontrata, la sospensione o la riduzione dei contributi – ovvero ancora la decadenza dagli stessi – laddove l’irregolarità non sia stata rimossa, non è dato desumere che “riguardi altresì la gestione in corso delle suddette federazioni, segnatamente sotto il profilo dell’esattezza delle cifre, della regolarità, della ricerca di economie di spesa, della redditività e della razionalità” (Corte giust. UE, 27 febbraio 2003, Adolf Truley, C-373/00, EU:C:2003:110, punto 73).
Circa poi il potere del CONI di nominare, a norma dell’art. 7, comma 5, lettera hi) del suo Statuto, dei revisori dei conti in propria rappresentanza nelle Federazioni sportive nazionali (lo Statuto della FIGC prevede, all’art. 31, che “Il Collegio dei revisori dei conti è composto dal Presidente, eletto dall’Assemblea, e da due componenti, nominati dal CONI”), è lo stesso Comitato Olimpico Nazionale a riconoscere, nei propri scritti difensivi, che ai detti “revisori dei conti non è consentito determinare la politica generale o il programma della Federazioni”. Il che a fortiori esclude che tali revisori possano influire sulla politica di gestione della Federazione suddetta, segnatamente in materia di appalti pubblici, non essendo decisivo a sminuire il precedente rilievo l’appunto per cui il collegio dei revisori dei conti – organo che esercita il controllo contabile della FIGC – nella sua composizione, subirebbe pur sempre la maggioranza delle nomine dal CONI (due revisori dei conti ed il Presidente, quest’ultimo eletto dall’Assemblea federale).
Analogamente non è possibile desumere la sussistenza dei presupposti per qualificare la FIGC quale organismo di diritto pubblico dal generale potere del CONI di commissariare le Federazioni sportive nazionali in caso di gravi irregolarità nella gestione, di gravi violazioni dell’ordinamento sportivo, di impossibilità di funzionamento di tali federazioni o di problemi di regolarità delle competizioni sportive (ex atrt. 5, comma 2, lettera e-ter ed art. 7, comma 2, lettera f) del d.lgs. n. 242 del 1999, nonché art. 6, comma 4, lettera fi, art. 7, comma 5, lettera f e art. 23, comma 3, dello Statuto del CONI), non emergendo dagli atti di causa – e segnatamente dalle difese del Comitato Olimpico Nazionale – elementi da cui desumere che l’esercizio di tale potere implichi un controllo permanente sulla gestione di tali Federazioni.
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve dunque concludersi che la Federazione Italiana Giuoco Calcio non è riconducibile al novero degli organismi di diritto pubblico, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 3, lett. d), del d.lgs. n. 50 del 2016 ed all’art. 2, comma primo, p.to 4 della direttiva UE n. 24 del 2014. Ne consegue il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore di quello civile, in ordine alla specifica vertenza per cui è causa, con conseguente applicazione del regime processuale di cui all’art. 11 Cod. proc. amm.
Gli appelli riuniti vanno dunque accolti in relazione a tale assorbente profilo, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
A cura di Roberto Donati – Giurisprudenza e Appalti