Nel respingere l’appello avverso la deliberazione avente ad oggetto, ai sensi dell’art. 192, comma 2, d.lvo n. 50/2016, l’internalizzazione, tramite affidamento a società in house, del servizio di gestione del Centro Unificato di Prenotazione (CUP), il Consiglio di Stato evidenzia il rapporto che si instaura in caso di gestione tramite società in house.
Così si esprime Consiglio di Stato, Sez. III, 27/08/2021, n.6062:
L’ultimo motivo di appello si prefigge di contestare la sentenza appellata laddove afferma che “non può giovare a parte ricorrente dedurre che il servizio affidato a xxx non sarebbe lo stesso nell’assunto che gli operatori risponderebbero a un dipendente della ASL (con compiti di gestione e organizzazione), in quanto – ammesso che sia così – si tratterebbe non solo di una mera modalità di concreta organizzazione del servizio (come tale non incidente sulla verifica di sussistenza delle condizioni di cui all’art. 192, comma 2, D. Lgs. n. 50/2016) ma anche di un indice del controllo che la ASL esercita sulla propria partecipata nelle attività che quest’ultima sarà chiamata a svolgere”.
Sostiene sul punto la parte appellante che l’affidamento del coordinamento e della organizzazione del servizio ad un dipendente della ASL e non della xxx, a differenza di quanto previsto dalle precedenti modalità organizzative, avrebbe l’effetto di trasformare l’affidamento in una semplice prestazione di mano d’opera, configurabile come (vietata) ipotesi di interposizione di mano d’opera: essa lamenta quindi, anche in relazione a tale aspetto, l’omissione di pronuncia da parte del giudice di primo grado.
In proposito, deve preliminarmente rilevarsi l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità del motivo di appello in esame, articolata dall’Azienda appellata, sul presupposto che il relativo contenuto critico sarebbe estraneo alle deduzioni ritualmente formulate in primo grado, siccome tardivamente introdotte con semplice memoria.
Deve infatti osservarsi che la doglianza, così come riproposta in appello, era già sufficientemente delineata in sede di perimetrazione del thema decidendum del giudizio di primo grado, ivi già sostenendo l’originaria ricorrente (cfr., in particolare, i motivi aggiunti) che l’attribuzione dei compiti di coordinamento delle attività degli operatori di sportello CUP ad una struttura della ASL, e segnatamente al DEC dei servizi di gestione del CUP individuato nel responsabile della struttura semplice denominata “Gestione liste di attesa /CUP”, dimostrava che l’affidamento contestato aveva ad oggetto solo la messa a disposizione della prestazione lavorativa degli operatori, integrante una ipotesi di (illecita) intermediazione ed interposizione di manodopera.
Fondata, invece, è la censura di parte appellante intesa a lamentare che il T.A.R. ha sostanzialmente omesso di pronunciarsi sul motivo in esame: ciò in quanto lo stesso giudice di primo grado, nel sintetizzare il contenuto della censura, ha evidenziato che la ricorrente si sarebbe limitata a dedurre – in termini, per quanto detto, non esattamente (o comunque non esaustivamente) corrispondenti al motivo di ricorso in esame – che “il servizio affidato a xxx non sarebbe lo stesso nell’assunto che gli operatori risponderebbero a un dipendente della ASL (con compiti di gestione e organizzazione)”.
Nel merito, tuttavia, il motivo in esame non è meritevole di accoglimento.
Deve premettersi che la distinzione tra appalto e interposizione di manodopera – con il connesso divieto di ricorrere alla seconda in difetto dei relativi presupposti legittimanti – trova la sua base normativa nel disposto dell’art. 29, comma 1, d.lvo n. 276/2003, ai sensi del quale “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Trattasi, quindi, di distinzione (e di connesso divieto) che trova il suo contesto applicativo tipico ed esclusivo nei casi in cui il committente e l’affidatario (di una prestazione di facere) si pongano in una relazione di alterità soggettiva, nell’ambito della quale, tra le rispettive strutture organizzative, non siano ravvisabili interferenze, conservando esse la propria autonomia funzionale: ricorrendo tale (ordinaria) situazione organizzativa, infatti, il legislatore ha avvertito l’esigenza di evitare fenomeni di fittizia imputazione del rapporto di lavoro, suscettibili di incidere sulla tutela dei lavoratori e di generare dubbi sulla univoca individuazione della figura datoriale.
Tali essendo i presupposti applicativi (e la stessa ratio) della previsione in esame, è evidente che gli stessi non ricorrono laddove lo stesso legislatore ammetta la legittimità di forme di affidamento diretto di un servizio tra soggetti appartenenti ad un centro di imputazione di interessi sostanzialmente unitario (sebbene formalmente articolato in una duplice soggettività giuridica), siccome accomunati dal perseguimento di un unico obiettivo attraverso la predisposizione di una struttura organizzativa strettamente compenetrata ed unitariamente diretta: quale appunto si riscontra nell’ipotesi della cd. società in house.
E’ noto, infatti, che, ai fini della configurazione del requisito del cd. controllo analogo dell’ente pubblico partecipante nei confronti della società in house, quel che rileva è che il primo abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della seconda, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica: ciò in quanto l’espressione “controllo” non può essere ritenuto sinonimo di un’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali, trattandosi invece di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal Codice Civile, fino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 1 del 3 marzo 2008).
Nello stesso ordine di idee, è stato altresì autorevolmente ritenuto che la società in house non possa qualificarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna: essa, infatti, rappresenta un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica, giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle relative condizioni legittimanti “esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo» (Corte costituzionale, n. 325 del 3 novembre 2010), talché “l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa” (così Cons. Stato, Ad. plen., n. 1/2008, cit.; va solo precisato che tale conclusione non cambia ove si ritenga che, in linea con la più recente normativa europea e nazionale, il ricorso all’in house providing si atteggi in termini di equiordinazione – e non più di eccezionalità – rispetto alle altre forme di affidamento).
Peraltro, con riguardo alla fattispecie in esame, la evidenziata peculiarità della relazione organizzativa esistente tra Azienda e società in house è posta in risalto nel provvedimento di affidamento al fine di giustificare i benefici attesi, in termini di qualità del servizio, dalla adottata soluzione organizzativa: si veda, sul punto, quanto affermato proprio con riguardo alla gestione del servizio CUP, laddove si osserva che “stante il dichiarato obiettivo di migliorarne le prestazioni (anche) al fine di determinare un contenimento delle liste d’attesa, la gestione ‘in-house’ consente – per l’immediatezza e l’immanenza della relazione tra committenza ed esecutore – di intensificare il controllo dei report quotidiani, settimanali e mensili sulle prestazioni ed i servizi resi presso i diversi punti di prenotazione aziendale, al fine di monitorarne tempi medi di attesa, numero di prestazioni prenotate, operatività degli sportelli, picchi di affluenza, durata media di trattazione delle singole richieste, al fine di intervenire con le necessarie azioni correttive”.
Infine, e ad ulteriore dimostrazione della bontà della soluzione interpretativa raggiunta, non può non evidenziarsi che la stessa relazione contrattuale tra Azienda e xxxx trova la sua consacrazione in una fattispecie contrattuale – il contratto di servizio – non assimilabile al contratto tipico di appalto e concepito, appunto, al fine di rispondere alle esigenze operative proprie di un servizio gestito in forma internalizzata.
L’infondatezza dell’ultimo esaminato motivo di appello impone quindi la reiezione complessiva del gravame.
A cura di Roberto Donati – Giurisprudenza e Appalti